In ogni stilla di vino, palpita l’amore
La storia…
Di tutta l’azienda, il posto che preferiva Antonio era la bottaia. Lì, il caldo del legno e i profumi del vino si mischiavano ai ricordi e l’intero spazio si impregnava di un’atmosfera incantata. Era il 2005 quando, con Michele e Giuseppe, amici da una vita, avevano trasformato il campo incolto di contrada Torlazzo in Colle Petrito. Il giorno prima dell’inaugurazione si erano dati appuntamento davanti al cancello, per godersi lo spettacolo di ciò che erano riusciti a creare. Tutti e tre a gambe larghe, con le mani in tasca, i primi fili bianchi tra i capelli, fissavano lo scrigno che custodiva il loro futuro.
– Ci pensate che l’abbiamo fatto veramente? – aveva chiesto Giuseppe, senza guardarli per non farsi scoprire con gli occhi lucidi.
– Questo succede quando si impastano i sogni con la fatica – aveva risposto Michele, ispirato.
– Non ti sapevo poeta – aveva ribattuto Antonio.
– Nemmeno io ti sapevo imprenditore.
Ed erano scoppiati a ridere, tutti e tre, felici e increduli. Ma nemmeno nelle loro più inconfessabili fantasie avrebbero sperato di vedere quel loro progetto prendere forma e ingrandirsi a quel modo. Ogni tassello che si aggiungeva, ogni nuovo macchinario acquistato, ogni professionista che entrava in quella loro famiglia allargata, li riempiva di una nuova gioia che, al pari dell’uva col vino, si trasformava in entusiasmo e voglia di fare ancora di più. Come il primo accordo con un distributore sudamericano; anche quella volta Michele aveva ironizzato, chiedendo ad Antonio:
– Sai parlare spagnolo, tu?
– E seguros, olé! – e lo aveva abbracciato.
Giuseppe li aveva sorpresi così e, come i calciatori dopo un gol, era corso da loro per unirsi ai festeggiamenti.
Ne era passato di tempo, da allora. L’azienda da un piccolo appezzamento si era estesa fino ai trecento ettari e avevano preso a esportare in Europa, Asia e America Latina. Ad Antonio piaceva pensare che i loro vini avrebbero fatto parte di altri ricordi, di tavole imbandite e corteggiamenti, cene romantiche e allegre riunioni tra amici, o giorni di festa passati in famiglia.
– Papà, che ci fai qui?
Eccola, la sua famiglia, che partecipava al sogno con lo stesso entusiasmo che aveva lui il primo giorno.
Il futuro custodito nello scrigno di Colle Petrito, ora, era il loro.
FianoMarì
Il nonno tornò dalla piazza con una cassetta di percoche, canticchiando: – Ohi Marì, ohi Marì… -. La nonna gli rispose a tono: – Veramente mi chiamo Teresa – e poi, spostando lo sguardo sulla frutta, aggiunse: – Ma tu non eri andato dal barbiere?
– Sì, ma poi ho visto ste belle percoche e mi sei venuta in mente tu.
– E che c’ho la faccia pelosa, io? – chiese lei.
– No, tu hai la pelle liscia liscia come una pesca matura – rispose lui e si avvicinò per schioccarle un bacio.
– Ma che fai, ‘ste oscenità davanti alla bambina? – si schermì la nonna. Lui la guardò e continuò a cantare: – Quanto sonno aggio perso per te…
– Tu la ragione hai perso, altro che il sonno – fece lei.
– Che ci posso fare se è da cinquant’anni che sono sempre innamorato?
La nonna avvampò e abbassò subito la testa, ma mi accorsi che stava sorridendo. Lo rimbrottò: – Vatti a lavare le mani, Cimabue, è quasi pronto.
Mentre il nonno andava in bagno, chiesi: – Chi è Cimabue? – e la nonna mi rispose, accarezzandomi la testa: – Uno come tuo nonno, che fa una cosa e ne sbaglia due! -. Lo disse ridendo, coprendosi la bocca con una mano, con lo stesso pudore che aveva da ragazza.
Mi divertiva stare con i nonni, durante le vacanze. E ora che non sono più su questa terra e io vivo lontana, di quelle estati ricordo la Murgia assolata alla controra, il sapore del vino forte che il nonno mi faceva assaggiare di nascosto e quel loro grande amore.
FalanghinaFuggiluna
Giocavano a nascondino con la luna. Quando quella provava a prenderli, sbucando dietro i tetti, loro correvano giù per un’altra rampa, tenendosi per mano. Senza fiato, si fermarono davanti alla Chiesa del Conservatorio. Lui l’attirò a sé, le cinse la vita. Lei gli guardava gli occhi scuri, le ciglia lunghe. Fu un interminabile silenzio elettrico, fu solo un istante. Lui posò le labbra polpose su quelle sottili di lei, che mai aveva provato l’ebbrezza di un bacio. Lasciandogli correre le dita tra i capelli, lei non nascose l’inesperienza e si lasciò guidare, offrendogli non solo la giovinezza, bensì l’amore di una vita intera. E lui le confessò senza dire alcuna parola i baci prima di quello, gli androni e i volti indistinti di ragazze passeggere. L’anima di lei si riversò nella bocca di lui, che la accolse e gliela restituì, mischiata alla sua. Si promisero ciò che non erano certi di poter mantenere ma in quella notte, al riparo dal chiarore della luna, tutto sembrava possibile.
Nero di TroiaIaccio della Portata
Lei mi porge: – Lo apri tu? –. Le loro dita si sfiorano, l’aria si carica di elettricità e cattive intenzioni. Lui, con gesti sapienti, mi libera la bocca imbavagliata. Avvicina il turacciolo alle narici, cerca le tracce del mio aroma. Sono uno tosto, io. Lei ingolla un primo sorso e poi un secondo, come fosse assetata. Scambia i solfiti per coraggio. Cerca il momento, prezioso e volatile, in cui le scioglieranno la lingua. Forse ora riuscirà a spiegargli perché l’ha invitato a casa sua. Gli chiederà di non fraintendere l’invito con una proposta. Spererà che lui fraintenda.
Il secondo bicchiere concede una tregua. La conversazione si fa più calda. Lei gli confessa che al domani non ci pensa mai. Punta tutto sul presente. Alle promesse ha smesso di credere. Lui incalza. – La mia l’ho mantenuta – dice. – Non del tutto. Non siamo ancora al terzo bicchiere – replica lei. Allunga il calice vuoto verso l’uomo, lo riporta pieno alle labbra. La lingua, prima sciolta, ora le si impasta in bocca. Un desiderio le si è acceso dentro, suo malgrado. Si guardano. Si intendono. Lui si alza, le si avvicina. Dà un ultimo sorso. Posa i bicchieri: prima il suo, poi quello che prende dalle mani di lei.
Ho fatto la mia parte, ora tocca a loro. Mi ritiro nel mio ventre cavo e, testimone silenzioso, brindo alla notte che arriva come un dono; una notte che, pur essendo accaduta, non sarà mai esistita.
PrimitivoLeupe
– E te, di dove sei? – gli chiesero.
Fece un rapido calcolo: metà della vita l’aveva passata nella metropoli che gli aveva assicurato il successo, gli abiti sartoriali e le cene eleganti, come quella a cui stava partecipando. Sorseggiò il vino: era fresco, amabile. Sapeva di casa. Non ebbe più dubbi. Guardò gli altri commensali e rispose, tutto d’un fiato: – Sono di un paese dove le case si tengono strette strette, chiuse tra un faro, una torre e qualche campanile; sono della festa di San Michele e della Madonna del Sabato, della processione dei sepolcri e dei pellegrinaggi alla grotta; sono della piazzetta col suo belvedere, delle ore passate sui vignali a guardare, in lontananza, il profilo del Monte Vulture, e di quelle spese a perdersi in mezzo alla Sciesciola; sono delle chianche sfregate fino ad allisciarle, purché brillino al sole; sono del dialetto che mi sale da dentro quando sono nervoso, e quando sogno; sono di Minervino Murge. E mo’, citt citt, sapit-l tutt.
AglianicoColbecco
Il giradischi diffondeva nell’aria ferma del salotto una mazurka di Chopin. L’uomo si diresse verso la vecchia poltrona, sistemata in un angolo della stanza, e si accomodò nel solco che la ripetizione del gesto aveva creato. Il generoso calice di aglianico era la porta d’accesso di un mondo immaginifico e incantato che, con caparbietà e ostinazione, metteva in scena, sera dopo sera. Bastava sorseggiare, chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dalle note; bastava poco. Prima una, poi due, e infine un nutrito gruppo di donne si affacciava, allegro e ciarliero. Le femmine erano state il suo daimon, virtù e perdizione di una vita intera. Un tempo amava collezionarle; ora che la vecchiaia lo aveva privato tanto dell’avvenenza quanto della prestanza, non poteva fare altro che rievocarle nell’ora in cui la sera cede il passo alla notte e il mondo si popola di fantasmi. D’un tratto vide emergere dalla penombra prima un gomito, poi una spalla nuda. Riconobbe immediatamente quella pelle d’alabastro: era la donna che, pur avendola desiderata sempre, non aveva posseduto mai. Quella si avvicinò, in un abito lungo che a stento copriva le forme procaci. Si sporse verso di lui, offrendogli alla vista quei suoi seni dalla rotondità perfetta, e gli sottrasse il calice. Lo accostò alle labbra, prese un lungo sorso e lo posò sul tavolino. Gli accarezzò una guancia ma, prima che lui potesse trattenere quella mano dalle dita affusolate, scomparve. L’uomo aprì gli occhi e d’un colpo si ritrovò nuovamente solo nella stanza. Come poteva essere, altrimenti? Lo sapeva bene, era un sogno. Riprese il suo vino e fu percorso da un fremito: sul bordo del bicchiere spiccava una traccia di rossetto.
Nero di TroiaTitani
(omaggio ad un contadino)
A te, rude contadino,
con la faccia che sembra
un fondo arato da solchi profondi
scuriti dal rovente sole,
dalle mani che odorano di terra
pregiate dalle crepe
per le dure carezze,
accolte come dono
dal gelido, sferzante vento
e rese preziose dai tagli,
frutto delle aride zolle,
riflesso del patimento di quella terra
che soffre, prima di divenir compenso,
m’è gaio conferir l’omaggio
per ogni palpito d’amor profuso
tra le fronde di quel vitigno solitario
a cantare del tuo mondo,
impervio senza una chiave di magia,
che in ogni “goccia” ti appagherà,
giammai con stille di nettare per il sol bere,
ma per la bramosa curiosità di scoprirne
e degustarne l’universo dei segreti
che sin dal primo sorso
inebrierà d’ognuno, corpo e spirito,
nell’intensa emozione d’un sublime incanto
nel mentre declama
la meravigliosa poesia della terra.